Incassare il Tfr ogni mese comporterà una riduzione dell’importo che verrà liquidato alla fine della carriera lavorativa. Ma questa ovvia conseguenza non è l’unica da prendere in considerazione per scegliere se sfruttare l’opzione introdotta dalla legge di stabilità.
Il trattamento di fine rapporto, su base annuale, è pari alla retribuzione diviso 13,5. Tenuto conto che la liquidazione mensile non partirà prima del prossimo mese e terminerà a giugno 2018, il gruzzolo accantonato a fine carriera sarà alleggerito fino a un massimo di 39 mensilità rispetto a chi continuerà ad accantonarlo lasciandolo in azienda o presso il fondo di tesoreria dell’Inps (se dipendente di imprese con almeno 50 addetti). A
questi importi va aggiunta la relativa rivalutazione annuale che, per legge, è pari al 75% dell’inflazione più l’1,5% fisso. Sull’incremento viene applicata un’imposta fissa del 17%, mentre l’ammontare finale è tassato applicando l’aliquota relativa alla media dei redditi degli ultimi cinque anni, quindi almeno il 23 per cento. Per effetto della rivalutazione annuale, il “buco” sarà più consistente per chi ha davanti ancora molti anni prima della pensione.
Per quanto riguarda invece gli importi incassati mensilmente, si deve tener presente che gli stessi contribuiranno a determinare l’imponibile fiscale complessivo, che quindi nel periodo considerato sarà più elevato, e tassato con l’aliquota Irpef ordinaria. Ne consegue che per i redditi più alti la tassazione potrà arrivare al 38% o superare il 40 per cento. Di conseguenza buona parte del Tfr pagato dal datore di lavoro se ne andrà in tasse.
Inoltre, e questo aspetto è importante per i redditi più bassi, l’incremento dell’imponibile fiscale complessivo potrebbe compromettere l’accesso ad alcune prestazioni agevolate, con l’eccezione del bonus da 80 euro, per il quale il Tfr mensile è neutro.
Se invece che essere lasciato in azienda (o presso il fondo di tesoreria dell’Inps), il trattamento di fine rapporto è conferito a un fondo pensione, il gap potrebbe essere ancora più consistente. In quest’ultimo caso, infatti, la tassazione degli importi liquidati a scadenza oscilla tra il 9 e il 15% in modo inversamente proporzionale agli anni di contribuzione. L’aliquota applicata sulla rivalutazione, invece, è sostanzialmente del 20 per cento. Però proprio la rivalutazione, a differenza del Tfr lasciato in azienda, non è prefissata per legge, ma oscilla in base al rendimento degli investimenti effettuati dal fondo.
Quindi può essere minore o maggiore. In quest’ultimo caso, sospendere la contribuzione per un periodo fino a 39 mesi avrebbe effetti più consistenti.
Secondo alcune simulazioni (si veda «Il Sole 24 Ore» dell’11 gennaio), il Tfr in busta paga può erodere (in base ai rendimenti ottenuti e agli anni mancanti alla fine della carriera lavorativa) dal 10 al 30% della pensione complementare che si potrebbe ottenere continuando a versare il trattamento di fine rapporto nel fondo.
Quest’ultimo effetto deve essere valutato con attenzione dai più giovani, dato che l’importo della pensione obbligatoria nella maggior parte dei casi sarà circa il 60% dell’ultimo stipendio, con la possibilità però di ridursi anche al 40% in relazione all’andamento della carriera lavorativa.
Fonte: Il Sole 24 Ore - Matteo Prioschi
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